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Caos in vista al voto in Libia

CANDIDATI TUTTI I PESI MASSIMI. DA HAFTAR A BASHAGHA PASSANDO PER GHEDDAFI



di Rodolfo Calo'

IL CAIRO. Un signore della guerra e un ricercato dall’Aja, un patron di milizie ma anche un mediatore liberale e il capo di un parlamento semi-delegittimato: la fucina di candidature alle elezioni presidenziali libiche fissate per il 24 dicembre - ma sempre a rischio slittamento - non si fa ma care nulla e sembra rispecchiare il caos in cui da un decennio si dibatte la Libia. La più recente delle 17 candidature finora segnalate per la tornata elettorale che dovrebbe riunificare lo spaccato Paese nordafricano è quella dell’ex ministro dell’Interno Fathi Bashagha. E’ dato in pole position per la guida della Libia fin dai tempi della conferenza di Berlino del gennaio dell’anno scorso in quanto uomo che conosce le milizie misuratine ed occidentali essendo stato miliziano egli stesso, oltre che pilota di caccia. Bashagha è avversario del maresciallo di campo Khalifa Haftar, l’uomo forte della Cirenaica, anch’egli candidato alla conquista di Tripoli attraverso le urne dopo che il mix di truppe regolari e miliziani di cui è comandante generale non era riuscito a prendere la capitale libica fra l’aprile 2019 e il giugno dell’anno scorso a causa dei droni e dei consiglieri militari turchi posti a difesa del governo riconosciuto dall’Onu. Il sito Africa Intelligence ha notato che il figlio del generale, Saddam Haftar, ha organizzato minuziosamente l’apparizione a Sebha, nel sud, di un altro figlio eccellente: Seif al-Islam, il secondogenito del linciato dittatore Mummar Gheddafi, che proprio da lì si è candidato in “un’operazione che evoca un patto elettorale” col militare che ha abbandonato temporaneamente la divisa per potersi candidare. Sarebbe una saldatura fra due figure controverse: l’esponente dell’est considerato all’ovest come un novello dittatore e il. delfino mancato di Gheddafi, sul quale pende sempre il mandato di cattura spiccato nel 2011 dalla Corte penale internazionale per crimini contro l’umanità perpetrati dal morente regime del padre. A conferma della sua capacità di imbastire compromessi, con Haftar ha avuto un’intesa - conclamata - Ahmed Maitig: l’ex vice del passato premier Fayez al-Sarraj, lui stesso primo ministro per pochi giorni nel 2014, annunciò la ripresa della produzione di petrolio nel settembre dell’anno scorso dopo il blocco dei terminal imposto dal generale. Questi, peraltro, non è onnipotente neanche nell’est che controlla militarmente: almeno secondo indiscrezioni, non sarebbe riuscito a dissuadere dal candidarsi Aqila Saleh, il presidente del parlamento così spaccato fra Tobruk e Tripoli che ha dovuto varare la legge elettorale delle presidenziali senza votarla. Si tratta di un appiglio formale già pronto per chi volesse contestare l’esito del voto, come già sta facendo quella sorta di senato libico che è l’Alto consiglio di Stato. Questa mancata ratifica, assieme ad altre lacune istituzionali, è anche una motivazione per chi prevede uno slittamento della tornata almeno di qualche settimana. In assenza di sondaggi d’opinione, è difficile stabilire pesi e speranze di questi e altri candidati come l’ex ambasciatore libico negli Emirati, Aref Nayed, e soprattutto - almeno per notorietà in Europa - Ali Zeidan: l’ex premier che nel 2014 accusò Haftar di aver tentato un colpo di Stato. E soprattutto, se si candiderà come sembra, anche dell’attuale premier Abdel Hamid Dbeibah.

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