Gran Bretagna fuori dall’Ue
- direzione167
- 5 giu 2022
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BREXIT/ALLA MEZZANOTTE DI OGGI L’ORA X. E JOHNSON GUARDA AGLI USA

di Alessandro Logroscino
LONDRA. E’ l’alba di un nuovo inizio, o il tramonto di un sogno morto dopo 47 anni. Non è stato un equivoco, non è stato uno scherzo, né un bluff: il Regno Unito molla davvero gli ormeggi, dalle 23 locali di oggi è fuori dall’Unione Europea, mosaico di nazioni che per la prima volta nella sua storia perde un tassello e si riscopre un po’ più piccolo, con un Paese in meno. Per ora si tratta di un passaggio formale, a oltre tre anni e mezzo dal referendum del 2016 segnato dalla vittoria del Leave sul Remain. Davanti ci sono ancora 11 mesi di transizione nello status quo (a meno di proroghe che il governo Tory di Boris Johnson esclude categoricamente) destinati a passare in fretta nell’affannata ricerca di un’intesa sulle relazioni future con i 27, commerciali in primo luogo. Ma intanto una pagina di storia si chiude davvero, dei simboli e non solo. Fra bandiere che scendono dai pennoni, da un lato e dall’altro della Manica; o continuano a garrire al vento come estrema recriminazione.
La vigilia del passo d’addio si è consumata a Bruxelles con l’ultimo atto del divorzio: la firma del Consiglio Ue, dopo la ratifica dell’Europarlamento seguita a quella di Westminster, sotto l’accordo di recesso, il documento che rende al Regno di Elisabetta lo status di ‘Paese terzo’ a quasi mezzo secolo dalla contrastata adesione al club europeo del 1973. Mentre a Londra è trascorsa in tono minore, prima del conto alla rovescia finale proiettato su Downing Street, dei previsti festeggiamenti di piazza di oggi dei brexiteer, delle veglie listate a lutto dei remainer più irriducibili, del discorso alla nazione di Johnson inneggiante a una nuova era. Oltre che del silenzioso sospiro di tanti: di sollievo per alcuni, di rimpianto per altri, inclusi quei cittadini europei trapiantati oltremanica (700.000 gli italiani) che dall’1 febbraio, rassicurazioni della diplomazia britannica a parte, si sentiranno un po’ meno a casa di prima.
Riti cui seguirà l’esigenza di fare i conti con il futuro. A cominciare dalle scelte strategiche di un Paese che il primo ministro giura di voler ricomporre oltre le troppe disparità odierne e di volere portare fuori dall’Ue, “non dall’Europa”. Ma non senza cercare sponde altrove, guardando in particolare agli Usa di Donald Trump. Non è un caso che proprio ieri a Downing
Street sia stato ricevuto il segretario di Stato, Mike Pompeo, pronto ad abbassare i toni sul dissidio con Londra sull’apertura britannica al colosso cinese Huawei per le reti 5G, a definire “fantastiche” le chance del dopo Brexit e a rilanciare la prospettiva di un trattato bilaterale di libero scambio con il Regno: “saltando la fila” evocata a suo tempo da Barack Obama. Le incognite del resto non mancano, al di là di un divorzio che la numero uno della Bce, Christine Lagarde, definisce “ordinato” non senza esprimere “rammarico”. Come conferma la Bank of England mantenendo per ora invariati i tassi, ma facendo balenare un allentamento monetario a breve. E abbassando sin d’ora le stime di crescita del Pil per gli effetti della Brexit dall’1,2 allo 0,8% nel 2020 e dall’1,7 all’1,4% nel 2021. La spaccatura che ha lacerato il Paese quasi a metà nel 2016 e le divisioni che hanno continuato a segnarlo non sono intanto destinate a svanire facilmente, a dispetto degli appelli all’unità di BoJo o della retorica del guardare avanti. Il fronte del Remain ha perduto la battaglia nel voto referendario quanto alle elezioni politiche di dicembre e lo sa. L’ha perduta per molti anni a venire, come ammettono in questi momenti anche esponenti dell’opposizione laburista o il candidato leader del partito eurofilo dei liberaldemocratici Ed Davey, limitandosi a ormai a sperare di poter dare battaglia per una qualche “Brexit soft”, nell’auspicio di far emergere le contraddizioni del verbo euroscettico. Mentre la vera trincea degli irriducibili passa attraverso i confini delle due nazioni del Regno che alla separazione dall’Ue hanno detto in maggioranza no e al dominio demografico dell’Inghilterra rifiutano adesso di rassegnarsi. L’Irlanda del Nord, dove i sostenitori dell’unificazione con Dublino rialzano la testa e cercano spiragli, se non altro nei tempi medio-lunghi. E soprattutto la Scozia, dove il governo locale degli indipendentisti dell’Snp di Nicola Sturgeon prepara il gesto dimostrativo di rifiutarsi di ammainare la bandiera europea di fronte al parlamento di Edimburgo per tornare a sventolare in realtà un’altra sfida: quella d’un nuovo referendum sulla secessione da Londra.
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