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La “telefonata perfetta” che inguaiò Donald

IL CAPO DELLA CASA BIANCA CHIESE A ZELENSKY IL ‘FAVORE’ DI INDAGARE I BIDEN


trump

WASHINGTON. Uscito indenne in aprile da due anni di indagini sul Russiagate, Donald Trump è finito sotto impeachment quattro mesi dopo scivolando su una telefonata fatta il 25 luglio scorso al presidente ucraino Volodymir Zelensky.


Una telefonata galeotta, nella quale gli chiese il “favore” di indagare su Joe Biden, suo principale rivale nella corsa alla Casa Bianca, e sul figlio Hunter, che sedeva nel board della società energetica ucraina Burisma a 50 mila dollari al mese mentre il padre gestiva la politica americana in quel Paese.


Trump sollecitò anche l’apertura di un’inchiesta su presunte interferenze ucraine nelle presidenziali Usa, per ribaltare le conclusioni del Russiagate. Richieste condite con il blocco degli aiuti militari americani a Kiev contro l’aggressione russa e il congelamento di una visita alla Casa Bianca.

Ma le pressioni sull’Ucraina era cominciate già in aprile, nonostante Trump avesse appena schivato nel rapporto Mueller l’accusa di aver cercato l’aiuto di un altro stato straniero, la Russia, per battere Hillary Clinton.


Il presidente aveva infatti già sguinzagliato il suo avvocato personale Rudi Giuliani a Kiev

per cercare materiale compromettente sui Biden e per convincere i dirigenti del Paese ad annunciare le indagini sull’ex vicepresidente e suo figlio. Una campagna che coinvolse anche alcuni diplomatici americani.


A far saltare tutto è stata una talpa, il ‘whistleblower’, un agente della Cia in servizio alla Casa Bianca, che il 12 agosto presentò all’ispettore generale dell’intelligence una denuncia, citando la controversa telefonata sulla base di quanto riferitogli da diversi funzionari allarmati. Ma la Casa Bianca impedì per un mese e mezzo che quella denuncia arrivasse al Congresso.


Nel frattempo a fine agosto Politico rivelò che Trump aveva trattenuto aiuti militari a Kiev per 391 milioni di dollari, assistenza sbloccata solo l’11 settembre sull’onda dello scandalo.

Il 24 settembre la speaker della Camera Nancy Pelosi annunciò l’avvio di un’indagine di impeachment, accusando Trump di aver tradito il suo giuramento, la sicurezza nazionale e l’integrità delle elezioni. Il giorno dopo il presidente diffuse una trascrizione parziale della telefonata a Zelensky, scandendo un mantra che ripete ancora oggi: un colloquio

“perfetto, appropriato, senza alcun quid pro quo”, ossia senza alcuno scambio.


Ma con la trascrizione Trump è sembrato aver fornito da solo in qualche modo la ‘smoking gun’ che i democratici cercavano. Una pistola fumante confermata poi da numerosi testimoni, prima a porte chiuse e poi in udienze pubbliche alla Camera trasmesse in diretta dalle tv che hanno portato il procedimento di impeachment dentro le case degli americani come ai tempi di Bill Cinton e di Richard Nixon.


Sono così sfilati diplomatici e alti dirigenti dell’amministrazione, che hanno sostanzialmente corroborato il quadro accusatorio, rivelando anche che l’allora consigliere per la sicurezza nazionale John Bolton era contrario a quello che considerava un ‘drug deal’, nel quale Giuliani era come “una bomba a mano che farà esplodere tutti”.


La deposizione più schiacciante è stata quella dell’ambasciatore Usa alla Unione Europea Gordon Sonland, che ha confermato il “quid pro quo” e di aver agito su ordine del presidente, tirando in ballo anche il segretario di stato Mike Pompeo e il vice presidente Mike Pence.

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