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ll governo tiene al Senato

IL PREMIER RILANCIA LE RIFORME. PATTO ANTI-CRISI CON DI MAIO



ROMA. Dopo i giorni del silenzio Giuseppe Conte torna in campo. Lo fa in un weekend che lo vede prima alle Festa del Fatto, poi a Cernobbio, infine a Trieste. E il premier rilancerà il patto di maggioranza che tiene in piedi il governo Conte II, nel nome del Recovery Plan e della sfida per modernizzare il Paese. Lo farà dopo aver incassato al Senato una fiducia sul dl semplificazione che, complice il caos del M5S, nelle ultime ore si era tinta di foschi presagi. Ma il governo, con 157 sì, alla fine tiene. Gli assenti, tra Dem, Movimento e renziani, sono sei. Tutti giustificati. E Conte, in vista dello scoglio Regionali, può contare su una sponda non scontata, quella di Luigi Di Maio. “Piena fiducia al premier e a questo governo”, scandisce il ministro degli Esteri. La partita dell’ex capo politico si è ormai spostata sul versante referendum e, sotterraneamente, sul futuro del M5S. In questo momento per Di Maio, Conte rappresenta tutto fuorché un avversario. Il fallito appello agostano del premier sulle alleanze M5S-Pd ha reso evidenti i limiti dell’influenza contiana sul frastagliato mondo pentastellato. Mentre il ruolo di Di Maio, man mano che si avvicina il giorno dell’addio di Vito Crimi, cresce d’importanza. E il ministro degli Esteri, meno di Crimi ma più di altri “big” pentastellati, può rappresentare - sebbene i suoi rapporti con Davide Casaleggio non siano idilliaci - anche un possibile mediatore tra i due centri di potere del Movimento: Milano e Roma. Proprio l’equilibrio tra la pattuglia parlamentare e Rousseau è stato sul tavolo di un vertice tenutosi nella sede del ministero della Giustizia martedì scorso. Presenti tutti i big del Movimento. Tranne due: Casaleggio e Alessandro Di Battista. E non è un caso. L’asse tra il figlio del guru del M5S e l’ex deputato è saldo ma rischia di restare fuori dai giochi, se è vero che solo l’ipotesi di mettere ai voti su Rousseau, già prima delle Regionali, la scelta tra leadership collegiale o unica, ha fatto gridare alla diaspora una trentina di parlamentari. Il Movimento, però, ha fretta. I vertici non vogliono farsi trovare impreparati dal probabile flop post- Regionali e voglio già avviare le basi del percorso che porterà agli Stati Generali. “C’è un estremo bisogno di una leadership forte”, ammette il titolare della Farnesina. E il voto sul format della leaadership su Rousseau era un compromesso tra l’ala casaleggiana e il fronte, sempre più ampio, di chi vuole la piattaforma come strumento al servizio del Movimento, e non come suo “deus ex machina”. Da qui alle Regionali altri vertici si susseguiranno. Nell’attesa che Crimi dia vita al comitato per gli Stati Generali. Nel frattempo c’è una campagna referendaria ed elettorale da affrontare. Di Maio, in serata e poche ore dopo l’arrivo di Nicola Zingaretti, avvia un tour di tre giorni in Puglia, è in prima linea. Punta ad essere l’emblema della vittoria del Sì. Ma a Bari e dintorni non esiterà a sostenere anche Antonella Laricchia, provando così ad aumentare il peso contrattuale del M5S in vista di eventuali alleanze alle Comunali. Ma il Pd non ci sta. Zingaretti torna a fare un appello al voto disgiunto mentre assieme ai ministri Roberto Gualtieri e Enzo Amendola farà entrare il Recovery Fund nella campagna del Pd. Un Partito democratico che si avvia al voto lacerato dal fronte interno del No e con l’obiettivo minimo della sconfitta per 4 a 2 con il centrodestra. Anche per questo il post-Regionali rischia di tramutarsi in un terremoto, con un range di conseguenze che va dal rimpasto alla crisi di governo. Il premier, per ora, esclude scossoni e resta concentrato sul Recovery Fund, provando a trovare il bandolo della matassa tra richieste ministeriali, esigenze parlamentari e il grande nodo del Mes, che Palazzo Chigi punta comunque a rinviare. Ma se il premier fosse costretto a un rimpasto non procederebbe senza un rinnovo del patto di governo che guardi all’Italia più che alle esigenze di partito.

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