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Via al processo a Londra

ASSANGE/IL GIUDICE CONTRO LA DIFESA. AMMESSE ALTRE ACCUSE DEGLI USA




di Alessandro Logrocino

LONDRA. Avvio senza sorprese e senza spiragli di particolare garantismo dalla giustizia britannica, ieri, delle udienze della fase dibattimentale del processo di merito sulla controversa richiesta di estradizione negli Usa di Julian Assange, fondatore di WikiLeaks. La difesa dell’attivista 49enne australiano, presente in aula con la barba lunga e un aspetto decisamente fragile e invecchiato, s’è vista infatti respingere la richiesta di rinvio e allungamento dei tempi indirizzata alla giudice Vanessa Baraitser, ancora una volta in piena sintonia viceversa col collegio che rappresenta Washington. Il rinvio era stato chiesto di fronte alla corte londinese di Old Bailey a causa delle contestazioni aggiuntive presentate all’ultimo momento dagli inquirenti americani contro Assange: accusato ora anche di aver cercato di assoldare hacker per aiutare la gola profonda Chelsea Manning a far trapelare nel 2010 documenti imbarazzanti dall’archivio del Pentagono assieme ad altri file diplomatici e militari riservati contenenti fra l’altro rivelazioni su crimini di guerra commessi in Iraq e Afghanistan, oltre che dei precedenti capi d’imputazione di spionaggio (invocati per la prima volta in una vicenda che riguarda i media). Ma la giudice ha decretato che il tempo a disposizione è sufficiente, riservandosi di arrivare come previsto a un verdetto - appellabile - entro inizio ottobre. Sono iniziate poi le audizioni di alcuni testimoni e periti chiamati dalla difesa, come il professor Mark Feldstein, docente di giornalismo dell’università del Maryland, che ha documentato come l’uso di materiale riservato sui media sia una costante nei Paesi democratici. Assange, in carcere nel Regno Unito da oltre sette mesi, dopo essere stato scaricato dalle autorità dell’Ecuador che gli avevano dato rifugio per quasi sette anni nell’ambasciata a Londra, rischia in caso di estradizione oltreo-ceano fino a 175 anni di galera. Equivarrebbe “a una condanna a morte”, ha denunciato al Times la sua nuova compagna, l’avvocata dei diritti umani Stella Morris che durante l’asilo in ambasciata gli ha dato due figli. Morris ha inviato al premier Boris Johnson una petizione contro la consegna agli Usa di Julian firmata da 80.000 persone e ha protestato dinanzi alla corte con decine di sostenitori - fra cui il padre del fondatore di WikiLeaks e la stilista Vivienne Westwood - al grido di “no all’estradizione” e “il giornalismo non si processa”. L’attuale direttore di Wikileaks, Kristinn Hrafnsson, si è dichiarato peraltro scettico sulla decisione finale britannica, dati gli atteggiamenti tenuti finora dai governi e dalla magistratura del Regno. Mentre altri amici dell’ex primula rossa australiana hanno ricordato come il processo in corso sia stato istruito e assegnato da una giudice capo, Emma Arbuthnot, che non si è fatta a suo tempo da parte neppure essendo la moglie di un ex viceministro della Difesa Tory noto per gli stretti legami con gli apparati d’intelligence di Londra e Washington e legato a un think tank da anni in prima fila nelle campagne

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