Nobel al virus dell’epatite C
- direzione167
- 5 giu 2022
- Tempo di lettura: 3 min
IL PREMIO PER LA MEDICINA AGLI ARTEFICI DELLA SCOPERTA ALTER, RICE E HOUGHTON

di Enrica Battifoglia
ROMA. Nel pieno della pandemia di Covid-19 un Nobel alla virologia era atteso e la scelta è caduta sulla scoperta del virus dell’epatite C, una malattia dai sintomi silenziosi ma dall’effetto dirompente, che nel mondo colpisce fra 130 e 170 milioni di persone. Le sue cause sono rimaste avvolte nel mistero per decenni, finché gli americani Harvey J. Alter e Charles M. Rice, con il britannico Michael Houghton, non sono riusciti a identificare il virus che la scatenava, aprendo la via alla possibilità di fare la diagnosi e trovare farmaci. A loro, e alla loro “scoperta che ha permesso di salvare milioni di vite”, è stato assegnato il Nobel per la Medicina 2020. “In questo momento drammatico è un segnale importante per tutta la comunità scientifica il Nobel per la Medicina a tre virologi”, ha rilevato il ministro della Salute, Roberto Speranza. E’ stata premiata una scoperta dalle ricadute importantissime, resa possibile solo dai passi in avanti fatti nei campi della biologia molecolare. Un Nobel “atteso da anni” e “più che meritato”, ha detto il virologo Sergio Abrignani, dell’università Statale di Milano, che ha collaborato a lungo con Houghton nei laboratori della Chiron, studiando il virus dell’epatite C e cercando un vaccino per combatterlo. Uno sforzo enorme che purtroppo non ha raggiunto l’obiettivo, ma che ha permesso di conoscere meglio quel virus così diverso dal SarsCoV2 responsabile della pandemia: se il secondo muta poco causando un’infezione acuta, quello dell’epatite C muta rapidamente e causa un’infezione cronica che danneggia il fegato causando cirrosi e tumori. Fino alla scoperta, premiata ieri con il Nobel, la causa della maggior parte delle epatiti era sconosciuta. Erano state identificate le cause dell’epatite A, legate soprattutto all’ingestione di acqua o cibi contaminati, e dell’epatite B, che si trasmette attraverso il sangue e il cui virus era stato scoperto negli anni ’60 da Baruch Blumberg, premiato con il Nobel per la Medicina nel 1976. Restavano però da identificare le cause di molti altri casi di epatite, apparentemente inspiegabili. L’americano Alter, che oggi ha 85 anni e che dal 1961 ha lavorato per i National Institutes of Health (Nih), è stato il primo a notare che il sangue delle persone colpite dalla strana epatite era contagioso per gli scimpanzè. Presto le sue ricerche hanno permesso di capire che l’agente infettivo aveva le caratteristiche di un virus e di chiarire che ci si trovava di fronte a una nuova forma di epatite. A sottolineare la natura, ancora poco chiara della malattia, si decise di chiamarla ‘epatite non A-non B’. La nuova sfida era identificare il virus, un obiettivo che allora sembrava irraggiungibile. A fare un po’ di luce sono state le analisi genetiche condotte dal britannico Houghton, che dopo la laurea al King’s College di Londra nel 1977, lavorava per la Chiron. Oggi insegna nell’Università di Alberta. Le sue ricerche hanno fornito il primo identikit del virus, dimostrandone l’appartenenza alla famiglia dei Falvivirus: finalmente era possibile dargli un nome più definito e venne chiamato ‘virus dell’epatite C’. A quel punto restava da capire se quel virus era effettivamente l’unico responsabile della malattia. Sono entrate così in scena le tecniche di ingegneria genetica utilizzate dall’americano Rice, che all’epoca lavorava nella Washington University di St. Louis e che oggi, a 65 anni, insegna nella Rockefeller University di New York. Le sue ricerche hanno dimostrato che era il materiale genetico del virus, ossia il suo Rna, a causare la malattia. A quel punto tutti i tasselli del puzzle erano a posto ed era aperta la via alla diagnosi della malattia, per mezzo dell’analisi del sangue, e alla possibilità di mettere a punto delle cure, salvando milioni di vite.
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